PAOLO E PIER FILIPPO ROSSI: IL BASKET UNA QUESTIONE DI FAMIGLIA

Due carriere importanti che non si sono mai incrociate quello di coach Paolo Rossi e di suo figlio Pier Filippo: il primo grande allenatore, vincitore di due Scudetti, una Coppa dei Campioni (l’ultima della storia, prima del passaggio all’Eurolega), due coppe Ronchetti, un Mondiale per club e tre Coppe Italia; il secondo giocatore di alto profilo, argento con la Nazionale ai Giochi del Mediterraneo, campione d’Europa con la Nazionale Cadetti, quintetto ideale agli Europei con la Nazionale U22, argento con la Nazionale Juniores e con quella U22, finalista per lo scudetto con la Scavolini Pesaro da play titolare a soli 19 anni e poi in giro per l’Italia sempre in piazze importanti.
Neppure quando si è trovato ad allenare gli uomini il padre ha avuto il figlio al proprio servizio – eccezion fatta per una preparazione estiva con i Crabs -, o sul fronte opposto da avversario.
Anche all’Happy Basket i due sembravano dover percorrere strade separate: dopo alcune stagioni, infatti, la scorsa estate Paolo aveva deciso di lasciare, mentre a “Filo” il presidente Piomboni aveva affidato la guida di U18 e Serie C.
Poco prima di Natale, però, coach Rossi si rendeva disponibile per aiutare la società e guidare fino a fine stagione l’U16: il titolatissimo allenatore si ritrovava finalmente “in squadra” con il proprio erede.
Come è stato lavorare insieme da colleghi?
Paolo: «una bella esperienza, perché Filippo conosce la pallacanestro, l’ha giocata ad alto livello, ma ha grande passione e umiltà. E’ il primo allenatore a Rimini che mi fa delle domande, senza sentirsi “imparato”. Durante la stagione ci siamo confrontati in palestra e spesso anche a casa: mi fa piacere che mi cerchi per parlare di basket da allenatore ad allenatore. Ho avuto da giovane questo tipo di rapporto con Arnaldo Taurisano, che mi aiutò nel passaggio da giocatore a coach: quando giochi pensi soprattutto a te, mentre quando alleni devi pensare a tutti. Non è una differenza di poco conto».
Pier Filippo: «ho sempre avuto la fortuna di poter condividere quello che mi piace con una delle persone più importanti della mia vita: avere la possibilità di confrontarmi e ricevere consigli ha significato molto, perché ho iniziato ad allenare quest’ anno, sono un esordiente. Non ho mai pensato di essere pronto solo perché ho giocato ad alto livello: all’inizio ho avuto delle difficoltà e questo sostegno è stato di grande aiuto. Come dice giustamente lui la cosa più complicata è stata dover pensare contemporaneamente alle esigenze di venti persone: non è stato facile, ma sono soddisfatto perché le ragazze mi hanno seguito e si sono impegnate per tutta la stagione».
In cosa ti sei sentito pronto e in cosa pensi di dover crescere?
Pier Filippo: «Mi sono sentito a mio agio nel gestire il gruppo in palestra, nel far divertire la squadra, ma anche nell’essere duro al bisogno. Riuscire a calibrare il piano di allenamento in base alle caratteristiche dei diversi gruppi, d’altro canto, non è un processo immediato, perché la mia esperienza magari a volte mi porta ad aspettarmi troppo. Ci vorrà tempo per gestire tutto nella maniera giusta, ma ho avuto riscontri positivi e per il momento sono contento così».
E’ stato difficile veder giocare la squadra di tuo figlio senza sentirti troppo coinvolto?
Paolo: «Io ho il mio carattere e in questo non faccio nessuna fatica. Non sopporto i genitori che urlano e criticano anche i propri figli: ho sempre cercato di chiedere a lui, più che di dire. Se esprimo un giudizio è perché è lui che cerca un confronto. Mi sembra che si applichi molto e abbia voglia; il problema è l’esperienza nella gestione di tutti gli aspetti tecnici e umani, ma quella si costruisce col tempo. Una regola che ho sempre applicato e che mi sembra applichi anche lui è capire che se i giocatori non riescono a mettere in pratica o non recepiscono quello che proponi loro, allora sei tu a dover abbassare il tiro, non puoi pretendere che siano loro ad adeguarsi a te».
Come si trova un allenatore con la tua storia ad allenare a livello giovanile?
Paolo: «L’importante è che il gruppo si applichi: i tiri si possono sbagliare, sono una variabile e io ho fiducia nelle mie giocatrici, ma l’atteggiamento in difesa o nel tagliafuori no, perché quella è una questione di voglia e di intensità. Sono situazioni che mi hanno sempre fatto arrabbiare, ma devo dire che in generale le squadre mi hanno seguito. E’ molto più difficile allenare a questo livello che in Serie A, perché ovviamente ragazze così giovani sono meno pronte, ma alla fine, comunque, un bravo allenatore trova il proprio equilibrio per riuscire a lavorare bene».

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